IN EVIDENZA

FATTI: Battaglia di LEPANTO – 1571



C'è un avvenimento storico che più di molti altri ha da sempre solleticato la mia fantasia portandomi a leggere quasi tutto quello che mi capitasse a tiro sull'argomento.
Anche se, contrariamente ai FATTI che ho trattato in precedenza su questo blog, il presente si discosti e molto in termini di “spazio” dal nostro caro lodigiano è altrettanto vero che la sua portata (anche se ridimensionata con il suo studio nel corso dei secoli) fu considerata epocale, specialmente al tempo del suo svolgimento e nei decenni successivi. Oltre a questo coinvolse, a volte proprio in prima persona, i più importanti nobili e comandanti anche della nostra zona, anzi alcuni di quelli che menzionerò avevano più di un interesse nel lodigiano e l'esito di quello scontro avrebbe potuto cambiare completamente la storia del nostro territorio, nonostante tutto si fosse svolto a più di 1300 km di distanza (in linea d'aria) da noi.

Parleremo quindi della famosa battaglia di LEPANTO…

Solite doverose premesse, stavolta qualcuna in più del solito...
Cercherò innanzitutto di riassumere non solo la battaglia, ma anche tutto quello che avvenne prima e che portò ad essa: cercando anche di darvi un’idea di come si svolse, di chi vi partecipò e di che mezzi e armi vennero utilizzate.
Questa esposizione non ha la pretesa di essere un trattato di storia, ma piuttosto un racconto avvincente di quello che avvenne e di come venne vissuto: vuole essere quindi il più possibile storicamente corretto ma, al tempo stesso, piacevole nella lettura.
Ultima nota, nel momento in cui scrivo sto ancora facendo ricerche sull'argomento in un contesto più ampio e di cui ho già accennato in un recente video con la mia casa editrice e presente anche QUI su questo blog, per cui non stupitevi se in questa stesura, alcune parti saranno appunto molto romanzate, per correttezza le inserirò (come al solito) come citazione.


ANTEFATTO

Il 25 maggio 1571 Papa Pio V era riuscito ad unire nella sua Lega Santa i maggiori principi e stati della cristianità contro il comune nemico: l’Impero Ottomano.
Gli equilibri nel Mediterraneo si erano definitivamente rotti quando i mussulmani avevano invaso Cipro, pretendendone il totale controllo a discapito di Venezia, conquistando Nicosia e ponendo sotto assedio Famagosta. Questa terribile minaccia aveva finalmente risvegliato dal torpore i maggiorenti cristiani e posto le basi per un accordo, improponibile solo qualche mese prima, tra la Corona di Spagna, che controllava praticamente mezza Italia, e la Repubblica di Venezia appunto, mai sottomessasi allo strapotere spagnolo. La Lega Santa aveva così cominciato ad organizzarsi e reperire navi, armamenti e uomini nella speranza di fare in tempo a salvare Famagosta, ma soprattutto per bloccare i turchi che, se avessero portato a termine la conquista di Cipro, avrebbero poi potuto dilagare in tutto il Mediterraneo.


PROTAGONISTI

Piccola digressione sui principali personaggi che parteciparono alla battaglia con delle minime note biografiche: mi riservo in futuro di trattare qualcuno di questi più approfonditamente…

EUROPEI

Don Giovanni d’Austria: ha 24 anni a Lepanto, figlio dell’Imperatore Carlo V e fratellastro del Re Filippo II di Spagna sarà scelto (dopo non pochi problemi) come capo di tutta la flotta, anche grazie alle mediazioni di Papa Pio V, del Conte romano Marcantonio Colonna e del Nobile milanese Gabrio Serbelloni.
Alessandro Farnese: amico e compagno d’armi di Don Giovanni d’Austria ha 26 anni a Lepanto ma è già un famoso capitano e molto ben introdotto alla corte spagnola, è anche Duca di Parma e generale dell’esercito delle Fiandre (non male per un ventiseienne).
Gabrio Serbelloni: ha 63 anni a Lepanto con alle spalle una carriera militare di tutto rispetto, tra cui spicca ad esempio l'essere stato cavaliere di Malta e Capitano della Guardia Papale per poi passare al servizio del Re di Spagna; nella battaglia rischierà la vita più volte, ma per il suo coraggio verrà insignito del titolo di Viceré di Tunisi.
Marcantonio Colonna: ha 36 anni a Lepanto, comandante delle galee papali (ha sostituito il Serbelloni e ne ha profonda stima); rifiuterà (con il senno di poi molto saggiamente) il comando supremo.
Gianandrea Doria: ha 32 anni a Lepanto è l'ammiraglio (nonché proprietario fisico) della flotta genovese in quel periodo al servizio del Re di Spagna, viene convinto solo all'ultimo a partire, anche perché rischia appunto molto di sua personale proprietà (da buon genovese mi viene da pensare).
Sebastiano Venier: l'ammiraglio veneziano ha ben 75 anni a Lepanto ma è di una tempra straordinaria, nonostante venga ferito ad un piede durante la battaglia continuerà a combattere e, tornato a Venezia, vivrà abbastanza da divenirne anche Doge.
Miguel de Cervantes: non è uno dei comandanti ma merita una menzione, l'autore del Don Chisciotte infatti parteciperà attivamente alla battaglia, ha 24 anni a Lepanto e proprio in questa battaglia perderà l'uso della mano sinistra; diversamente da quello che si possa pensare, anche se è spagnolo, a Lepanto presta servizio sotto Marcantonio Colonna essendo a quel tempo una guardia papale.

OTTOMANI

Alì Mehemet Pascià o più semplicemente Alì Pascià: ammiraglio ottomano di 50 anni e grande esperienza; ha fama di non aver mai perso uno scontro, prima di Lepanto sarà lui a compiere la conquista di Cipro.
Mehmet Shoraq conosciuto dai cristiani come Maometto Scirocco: esperto comandante di marina e uomo fidato di Alì Pascià, molto scaltro non si tira mai indietro in uno scontro ed è riconosciuto anche dai cristiani come il più temibile comandante navale di tutto il Mediterraneo.
Uluch Alì che i cristiani chiamavano Occhialì detto il il Tignoso: ex campagnolo calabrese convertito all'islam è un pirata a tutti gli effetti e nel corso degli ultimi anni prima di Lepanto ha compiuto numerosissime incursioni contro capisaldi spagnoli e veneziani soprattutto in Adriatico.



IL VIAGGIO VERSO LEPANTO

Prima di arrivare alla battaglia vera e propria, vorrei fare un piccolo excursus su cosa successe nel viaggio prima di arrivare a Lepanto, anche perché questa non era inizialmente la meta della flotta cristiana...

Non erano ancora le idi di giugno che la flotta proveniente da Barcellona al comando di Don Giovanni d’Austria e le truppe guidate da Alessandro Farnese fossero pronte a partire da La Spezia, era giunta nel frattempo anche la buona notizia che da Genova sarebbero partite, in capo a pochi giorni, anche le galee guidate da Gianandrea Doria.
Il 22 Giugno a Civitavecchia si aggiunsero alla flotta le galee papali e al consiglio di guerra il loro comandante: Marcantonio Colonna, visto da tutti come il più capace capitano al momento presente sulla scena europea, non solo italiana, e per questo degno del rispetto di tutti. La flotta a questo punto parve guidata da due ammiraglie: la Real di Don Giovanni e la Marquesa del Colonna, con quest'ultima che poteva far sventolare sul suo albero maestro uno stendardo papale fatto appositamente preparare per la spedizione e recante dipinto un crocifisso con ai lati San Pietro e San Paolo e l'evocativa scritta "IN HOC SIGNO VINCES" (con questo segno vincerai).
Non sarebbe però stato l'unico stendardo della Lega perché, qualche giorno più tardi a Napoli, un delegato del Papa ne avrebbe donato un altro a Don Giovanni, quasi identico, ma con gli stemmi dei principali stati aderenti alla Lega Santa al posto dei due Santi insieme alla sua personale benedizione. Il vedere riportato su quest'ultimo anche lo stemma della Serenissima aveva fatto però riaprire i discorsi in merito alla scelta di colui che avrebbe guidato tutta la missione. La decisione non si sarebbe fatta attendere che qualche giorno ancora, quando tutti, compresi veneziani e genovesi, si sarebbero trovati a Messina.
In quei giorni siciliani, mentre tra commilitoni di diversi schieramenti nascevano simpatie e amicizie, gli animi nello stato maggiore si scaldarono, e non poco, con l'arrivo della flotta veneziana. Mancando ancora all'appello le navi genovesi, quelle di Venezia erano più del doppio delle spagnole e papali al momento presenti a Messina, 108 contro 48, comprese anche quelle sotto la guida del Colonna. Cosa che portò Sebastiano Venier, ammiraglio veneziano ormai settantacinquenne ma con lo spirito indomito degli altri giovani condottieri, a pretendere il comando supremo. L'alleanza sembrava sul punto di disfarsi ancora prima di aver preso il largo se non fosse intervenuto il conte Gabrio Serbelloni. Il nobile milanese era uno degli ufficiali più attempati a bordo della Real e preso in grandissima considerazione sia da Don Giovanni che dal Farnese i quali non mancavano di ascoltare i suoi consigli; il Serbelloni però annoverava tra le sue amicizie anche Venier ed incredibilmente fece pendere tutto il consiglio di guerra verso la scelta di un comandante il più possibile al di sopra delle parti e tutti videro questo suo discorso come un'aperta candidatura del Colonna. Probabilmente quello che nemmeno il Serbelloni si aspettava fu il rifiuto del comando da parte del nobile romano che, invece, candidò, sorprendendo un po’ tutti, proprio Don Giovanni d’Austria, inoltre fu così abile da far apparire la scelta come la più logica e ponderata anche agli stessi veneziani. Poi con l'arrivo delle galee genovesi al soldo della Spagna a ristabilire una sorta di parità numerica tra i due più importanti stati cristiani coinvolti, la flotta poté salpare verso Cipro nella speranza di essere ancora in tempo per salvare Famagosta.
Fu il 16 settembre appena arrivati a Corfù, tappa prevista per gli ultimi approvvigionamenti, che l'amara realtà si presentò ai condottieri della Lega. Trovarono la città stremata perché messa a ferro e fuoco dagli ottomani in un tentativo, fallito, di impadronirsi di un altro avamposto veneziano dopo che Famagosta era caduta addirittura un mese prima. Trapelò anche la notizia che il comandante della guarnigione veneziana a Cipro, Antonio Bragadin, dopo aver difeso strenuamente per mesi il forte aveva accettato la resa a patto che non venisse fatto alcune male ai suoi soldati; Alì Pascià, cinquantenne comandante supremo ottomano e con la fama di non aver mai perso uno scontro, acconsentì alla richiesta ma, nel momento in cui gli ufficiali consegnavano le armi, avendo mal sopportato i mesi di insuccessi impostigli dai veneziani, li aveva fatti catturare ed aveva ordinato che il Bragadin venisse scuoiato vivo davanti ai suoi soldati prima che anche questi venissero brutalmente uccisi.
Gli animi erano esasperati. Anche la truppa bramava di poter incontrare faccia a faccia i turchi per vendicare Famagosta, ma l'idea di attaccare frontalmente la più grande flotta che avesse mai solcato il Mediterraneo era comunque rischiosa. A parte forse il Doria, che rischiava le navi di sua stessa proprietà, erano comunque tutti concordi nel cercare lo scontro il prima possibile, nonostante la stagione di navigazione fosse quasi finita, in modo da non dare tempo alla flotta nemica di riarmarsi e diventare ancora più pericolosa. A Corfù gli ottomani li avevano preceduti di poco e di sicuro avevano saputo della flotta cristiana in arrivo, quindi non avrebbero rischiato di infilarsi nell'Adriatico con il rischio di vedersi chiusa la ritirata verso oriente: dovevano aver trovato un porto non molto distante e sicuro per passare l'inverno e riarmarsi senza dover per forza tornare a Costantinopoli. Lepanto sembrò l'unica risposta plausibile.

Giunsero nel golfo la mattina del 7 ottobre.


ARMAMENTI

I dati in questo senso sono incerti, cercherò di riassumere il tutto in maniera schematica giusto per dare un'idea di base della quantità di uomini e armi presenti quel giorno a Lepanto.

NAVI

GALEE (210 cristiane e 265 ottomane): lunghezza 40 metri per 7 di larghezza, vela triangolare latina, portavano al massimo 250 rematori, e 250 fanti; armate con uno o al massimo due cannoni (solo a prua) potevano sparare solo nel senso della rotta ed avevano un unico ponte.
GALEAZZE (soltanto 6 e solo cristiane): fanno la loro prima comparsa nella storia proprio in questa battaglia, avevano un castello a prua e uno a poppa, lunghe 50 metri per 10 di larghezza con alberi a vele quadre e un doppio ponte: quello dei rematori posto sotto a quello, sempre coperto, per i cannoni, ne potevano portare 10 o 12 (5 o 6 per lato) e appunto potevano sparare anche lateralmente a differenza di tutte le altre navi impiegate.
FELUCHE (solo ottomane): velocissime e maneggevoli, più adatte ai bassi fondali del lato nord del golfo, lunghe solo 25 metri per 4 di larghezza con due alberi a vela quadra, in genere non erano equipaggiate di cannone.

UOMINI

EUROPEI: contano circa 30.000 fanti e 50.000 marinai/rematori, sono armati di archibugi e balestre (archi solo in qualche raro caso), nello scontro ravvicinato usano picche, alabarde e spade; la quasi totalità dei soldati cristiani ha almeno il busto protetto dall'armatura, i comandanti indossano leggere armature complete a scaglie che non ne penalizzano troppo i movimenti.

OTTOMANI: 45.000 giannizzeri e 65.000 rematori, gli archibugi sono rarissimi (e poco efficaci) ma hanno archi (i turchi sono abilissimi nel loro uso) e balestre, mentre nello scontro ravvicinato prediligono lance, sciabole e le più svariate forme di daghe e coltelli; i giannizzeri indossano la loro uniforme che prevede rivestimenti in cuoio, ma nessuna vera e propria armatura usata invece dagli ufficiali per la sola protezione del busto.



SCHIERAMENTO

LE GALEE CRISTIANE si posero in un'ordinata linea diritta da nord a sud. Al centro stava la REAL con a bordo, Don Giovanni d’Austria, Alessandro Farnese e Gabrio Serbelloni; a destra della Real stava la MARQUESA di Marcantonio Colonna e a sinistra la CAPITANA di Sebastiano Venier insieme ad altre navi a formare un corposo blocco centrale. A nord del gruppo centrale le navi veneziane guidate da Agostino Barbarigo, uomo di fiducia del Venier e sempre in contatto visivo con la Capitana per eventuali ordini dal vecchio ammiraglio. A sud invece le galee genovesi guidate personalmente da Gianandrea Doria. Ad ovest, a fungere da retroguardia, le galee dei Cavallieri di Malta, più piccole ma pronte a sfruttare la loro maggiore velocità per fornire supporto dove ve ne fosse bisogno. A est, proprio di fronte al nemico, si disposero le galeazze guidate dai Bragadin, figli di quello stesso uomo che aveva retto le difese di Famagosta e che si erano offerti volontari per quella posizione avanzata tanto pericolosa quanto cruciale.
GLI OTTOMANI si schierarono con al centro l’ammiraglia guidata da Alì Pascià in persona. Il corno destro a nord a fronteggiare i veneziani, formato soprattutto da piccole e veloci feluche, più piccole delle galee ma più adatte ai bassi fondali presenti in quel punto del golfo, era guidato da Maometto Scirocco, forse il più abile tra i capitani turchi. Il corno sinistro, con di fronte le galee genovesi, forse il più nutrito come numero di navi era comandato da Occhialì, detto il Tignoso.
I due corni ottomani, approfittando del vento a favore cominciarono ad allungarsi seguendo il profilo della costa, formando una sorta di mezzaluna; le galee cristiane rimanevano praticamente immobili in linea con davanti il gruppo delle galeazze e dietro quello delle galee maltesi in quella sorta di croce che avevano formato. Croce e mezzaluna, cristianità e islam: la battaglia stava davvero per cominciare.



BATTAGLIA

Vorrei rendere romanzata anche l'ultima parte di questo mio trafiletto, ma per fare questo vorrei che vi concentraste solo su un uomo, un giovane ipotetico armigero al servizio di Alessandro Farnese e che tra i primi prenderà parte alla battaglia e la seguirà con i suoi occhi e non con quelli (freddi e metodici) di un cronista esterno. Anche l'armamento del nostro “uomo” è diverso dagli altri (così anche come le sue riflessioni finali con cui chiuderò il pezzo), indossa solo una cotta di maglia, per essere più veloce nei movimenti e nel corpo a corpo impugna un gladio romano (piccola autocitazione, spero me la perdoniate).

Come i comandanti cristiani avevano previsto i due corni ottomani tentarono l'aggiramento della flotta superando senza prestare attenzione le sei galeazze: evidentemente dovevano avere pensato si trattasse solo di navi da carico poste in quel punto nel tentativo di rallentarli o intralciarli. La squadra delle veloci feluche dello Scirocco sul lato nord del golfo fu il primo a passare vicino alle galeazze e in quel momento si scatenò l'inferno: i cannoni laterali, coperti fino a qualche istante prima, spararono su dei bersagli sorpresi ed inermi. Il gruppo centrale con la nave ammiraglia di Alì Pascià venne anch'esso pesantemente cannoneggiato, mentre quello a sud di Occhialì, provò ad allontanarsi dalle galeazze sfruttando il braccio di mare aperto che aveva a babordo.
Nello schieramento cristiano non si aspettava altro che lo scompaginamento della formazione ottomana per attaccare. A sud il Doria seguì specularmente il movimento di Occhialì seguendolo verso sud continuando a tenerlo impegnato. A nord invece i veneziani furono subito addosso alle feluche dello Scirocco che però sfruttarono i bassi fondali per sfuggire ai nemici ed infierire loro pesanti danni, vennero però bloccate un attimo prima della riuscita dell'azione dalle due galeazze dei fratelli Bragadin, accorsi in aiuto dei loro compagni veneziani in difficoltà.
Al centro invece successe l'inaspettato: di solito infatti le navi dei comandanti si tengono in disparte per controllare lo svolgersi della battaglia e segnalare i movimenti alle altre navi, il cannoneggiamento delle galeazze aveva però aperto il gruppo centrale turco e la nave ammiraglia si era trovata così ad essere più avanti rispetto alle altre. Era anche cambiato il vento, che ora spirava alle spalle della flotta della lega Santa: questo ennesimo dettaglio venne interpretato come un segno da Don Giovanni d'Austria che, vedendo davanti a sé la galea del comandante ottomano non perse tempo e ordinò l'abbordaggio.
Quando le due navi vennero a contatto il colpo fu terribile. Non tanto per gli equipaggi delle stesse, ormai pronti al colpo, quanto per le rispettive navi d'appoggio. Marquesa e Capitana spalleggiarono subito la Real abbordando e bloccando le accorse galee ottomane. In breve al centro del golfo si era creato una sorta di isolotto artificiale fatto di navi incastrate l'una all'altra. Il sentimento però dei due comandanti era diametralmente opposto: Alì Pascià non sapeva dove voltarsi per chiedere interventi in suo soccorso, Don Giovanni invece, fiducioso nell'operato autonomo dei suoi capitani sulle ali, vedeva solo il suo nemico a portata di spada.
La battaglia fu furibonda. Nessuno da entrambe le parti si tirava indietro. I giannizzeri diedero prova della loro fama, ma l'organizzazione dei cristiani e la loro abitudine a combattere per terra, cosa in cui appunto si era praticamente evoluta la battaglia navale, stavano avendo la meglio. Don Giovanni e Alessandro Farnese guidavano in prima persona l'attacco senza arretrare di un passo; nemmeno il vecchio Venier era da meno, abilissimo balestriere faceva strage di mussulmani dal castello di prua della sua Capitana, anche grazie all'aiuto del suo luogotenente che ricaricava di continuo la possente balestra con intarsiato il leone di San Marco.
In tutto questo Muzio (il nostro armigero sopracitato) si distingueva come una sorta di variabile impazzita, dopo essere stato tra i primi a tentare il ponte dell'ammiraglia nemica, ora faceva strage di arcieri e balestrieri anticipandone i colpi grazie alla velocità nel destreggiarsi con la sua arma. Il gladio diveniva poi mortale e incontrastabile nei corpo a corpo, le scimitarre mussulmane per quanto maneggevoli e rapide erano del tutto inadatte al combattimento ravvicinato costantemente cercato da Muzio: conscio del fatto che ad un palmo di distanza dal suo ennesimo avversario lui avrebbe potuto comunque colpire. Fu in un attimo di sosta tra un nemico ucciso e l'altro che vide però il Serbelloni ferito ed in aperta difficoltà contro un gruppo di tre giannizzeri. Cambiò quindi repentinamente la sua corsa e il suo obiettivo dirigendosi in aiuto del nobile milanese, arrivando in tempo per infilzare l'ultimo turco rimasto in piedi, ma non potendo evitare che il conte, stremato e con l’armatura completa indosso, finisse in mare. Non frapponendo indugi e sapendo che con la sua sola cotta di maglia avrebbe potuto muoversi con una certa scioltezza anche in acqua, rinfoderò il gladio grondante sangue e si tuffò. Non gli fu difficile riportare all'asciutto, ma sulla Marquesa, Gabrio Serbelloni che, dopo una pressione mirata sullo sterno riaprì gli occhi sputando acqua salmastre. Lo sguardo del conte diceva tutto in un misto di gratitudine e stupore una volta riconosciuto il volto del suo salvatore.
Muzio però aveva già l'attenzione altrove. Vide venire direttamente verso il gruppo centrale le galee di Occhialì, dovevano aver eluso il Doria con una rapida inversione di rotta ed ora venivano a dar man forte al centro. Salì quindi sull'albero più alto per segnalare alle galee maltesi di intercettarle. Queste, grazie anche al vento ancora favorevole, riuscirono a frapporsi tra il centro e le navi ottomane in rapida avanzata, dando il tempo al Doria di rientrare ed accerchiare il Tignoso calabrese. Dall'inizio della battaglia quello fu l'unico momento in cui Lorenzo ebbe un brivido, poté durare però solo un battito di ciglia perché dall'ammiraglia turca, ormai conquistata, si alzò un grido di vittoria e affinché a tutti fosse chiara la fine e l’esito della battaglia venne issata su una picca la testa mozza di Alì Pascià.
Quel macabro trofeo mostrato spense istantaneamente l'ardore guerriero di Muzio. Aveva ucciso più uomini di quanti ne potesse contare, anzi a dirla tutta non li aveva contati proprio; sapeva quello che era venuto a fare e lo aveva fatto, ma ora un senso di vuoto lo aveva colto. Si era forse cavallerescamente illuso che tutto si riducesse alla lotta di bene contro male, ma possibile che gli atti del bene fossero in sostanza così simili alle azioni del male? Afferrando nuovamente la sua spada per pulirla dal sangue sentì forte dentro di lui la risposta alla sua domanda, capendo, forse per la prima volta, cosa significasse essere dannato.
Unica sua consolazione in questa grandissima vittoria della cristianità, come sarebbe in seguito stata chiamata la battaglia di Lepanto, fu il vedere salve le persone che in questo lungo viaggio nel Mediterraneo aveva conosciuto ed imparato ad apprezzare. Venier era stato ferito ad un piede, ma ci voleva ben altro per fermarlo, il Farnese e Don Giovanni ne uscivano addirittura quasi del tutto illesi, come anche il Colonna; quello che aveva rischiato di più alla fine era stato appunto il Serbelloni, ma a questo, proprio lui, aveva posto rimedio.
Riuscì perfino a regalare un sorriso a quello spagnolo, Cervantes, che nella battaglia aveva subito una grave ferita alla mano sinistra, gli erano stati recisi tutti i tendini, e si lamentava quasi piangente di cosa ora, così menomato, avrebbe potuto fare.
-              Tutto quello che vuoi… – lo aveva rincuorato Lorenzo. – Ad esempio puoi senza dubbio continuare a scrivere…


_______________________________________________

FONTI

-   Arrigo Petacco, La croce e la mezzaluna. Quando la cristianità respinse l'islam, Milano, Mondadori, 2005, ISBN 88-04-54397-3
-     Alessandro Barbero, Lepanto. La battaglia dei tre imperi, Bari, Laterza, 2010, ISBN 88-420-8893-5, SBN IT\ICCU\CFI\0767070
-       AA.VV., Serbelloni in Il libro della nobiltà lombarda, Milano 1978
-       Silvio Bertoldi, Sangue sul mare - Grandi battaglie navali, cap. III, Rizzoli, Milano, 2006
-    Sergio Masini, Le Battaglie che cambiarono il mondo, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1995

Nessun commento:

Posta un commento